domenica 26 dicembre 2010

We Want Sex

Made in Dagenham
2010
Regia di Nigel Cole. Sceneggiatura di William Ivory. Con: Sally Hawkins, Bob Hoskins, Miranda Richardson, Rosamund Pike, Andrea Riseborough, Daniel Mays, Jaime Winstone, Kenneth Cranham, Rupert Graves, John Sessions, Richard Schiff, Geraldine James, Roger Lloyd Pack.
Voto: 7,5/10

"Nel 1968 alla Ford di Londra lavoravano 55.000 uomini... e 187 donne".
Nella loro speciale ala della fabbrica, con la pioggia che entra dal soffitto e il calore che non esce, le donne operaie della Ford siedono alle loro macchine, per assemblare e cucire i rivestimenti dei sedili. Ma quando si vedono riclassificare come "non specializzate", decidono di fare ciò che nessuno si aspetta da loro: scioperare. E sotto la guida di Rita O'Grady (Hawkins) trovano la forza di reclamare non solo la classificazione che spetta loro, ma anche l'uguaglianza salariale. E, al contrario delle aspettative degli uomini, riusciranno ad attirare l'attenzione ed il favore del ministro Barbara Castle (Richardson).

Il film pare non aver ottenuto grandi attenzioni né dal pubblico né dalla critica. Probabilmente perché ormai siamo troppo abituati al cinema made in USA, in cui il troppo stroppia, il comico è quasi sempre legato al volgare, l'azione agli effetti speciali e l'impegno alla solennità forzata e alle facce dure. Quello che Nigel Cole (già fortunato regista di Calendar Girls e L'erba di Grace) ci offre, invece, è un pacchetto semplice, ma ben confezionato. Non c'è uno stile narrativo originalissimo, ma nel complesso si può dire che funzioni tutto come deve. Le donne che ci racconta sono forti, ma umane. E per quanto abbiano fatto la storia, è bene ricordarsi che la storia la fanno delle persone vere, non degli ideali astratti, che hanno meno debolezze, ma con cui nessun pubblico si può realmente identificare. Cose a cui Hollywood ci ha disabituato quasi del tutto.
Sally Hawkins viene accusata di non ammaliare, ma il personaggio non è quello dell'ammaliatrice, bensì della donna, operaia, moglie e madre, che prepara la colazione alla famiglia al mattino. E chiunque abbia una madre sa che, per quanto ordinaria possa essere, quando la si fa arrabbiare la casa trema.
Lo stesso vale per tutti gli altri personaggi: semplici, ma ben caratterizzati.
Non si può dire che sia grande cinema, ma nemmeno lo vuole essere.

NOTA. A tutti i presunti cinefili saccenti, che commentano le recensioni dei siti web importanti dandosi grandi arie: svalutare questo film cercando di paragonarlo a Ken Loach è da ignoranti. Mozart non c'entra niente con Richard O'Brien.

sabato 25 dicembre 2010

Un Vagabondo

Hannah, puoi sentirmi? Dovunque tu sia, abbi fiducia.
Guarda in alto, Hannah! Le nuvole si diradano, comincia a splendere il sole. Prima o poi usciremo dall'oscurità verso la luce e vivremo in un mondo nuovo, un mondo più buono, in cui gli uomini si solleveranno al di sopra della loro avidità, del loro odio e della loro brutalità.
Guarda in alto, Hannah! L'animo umano troverà le sue ali e finalmente comincerà a volare, a volare sull'arcobaleno verso la luce della speranza, verso il futuro, verso il glorioso futuro che appartiene a te, a me, a tutti noi.
Guarda in alto, Hannah.
Lassù!
-da Il Grande Dittatore

Charles Spencer Chaplin moriva esattamente trentatré anni fa, a Corsier-sur-Vevey, in Svizzera, dove viveva dal 1957. Era nato il 16 aprile 1889, a Londra. Capita, qualche volta, che Pasqua sia il 16 aprile. In quei casi si potrebbe dire che Charlie Chaplin è nato a Pasqua e morto a Natale. E oggi, 25 dicembre 2010, è il trentatreesimo anniversario della sua scomparsa.
Figlio di un'alcoolizzato e di una malata di mente, Charlie si dimostrò presto un'ottima presenza teatrale, grazie alla quale venne notato da un produttore e portato in California.
Che il personaggio per cui tutti lo ricordiamo, The Tramp o Charlot che lo si voglia chiamare, Il Vagabondo, insomma, sia quello che è forse allora non è proprio un caso. La casa di Charlie non era più l'Inghilterra, ma nemmeno era americano. Come poi non fu mai svizzero.
Ma le radici decise di metterle negli Stati Uniti. E mentre Buster Keaton catturava il pubblico con le sue acrobazie e il suo volto impassibile, lui lo rapiva con lacrime e risate.
Non era un uomo perfetto. Quattro mogli, molte amanti e molti figli. Una passione per le giovani vergini. Eppure è indimenticabile l'amore che racconta nelle sue pellicole, prive di parole, dense di sguardi e di gesti impacciati, quelli di un uomo innamorato, capace anche di grandi sacrifici. Come si possa spiegare quest'incongruenza non so dirlo.
Le donne che Chaplin ci vuole raccontare vengono viste dai suoi occhi come creature angelicate, che lui pone su di un piedistallo dal quale possano illuminare tutta la sala, immersa nel buio, mentre un pianoforte suona dalla buca. La gente sta seduta, ride, fuma. Dice una parola alla persona accanto. Si commuove. Poi, titoli di coda. Esce dal cinema, torna a casa.
Se Charlie Chaplin fosse effettivamente filocomunista non è mai stato accertato. Né che fosse antiamericano. I suoi film raccontano gli operai, i vagabondi, gli orfani. Raccontano i difetti e le contraddizioni di una società, che era sì quella statunitense, ma che poteva rispecchiarne anche un'altra. O più di una. La denuncia che può essere individuata nelle sue pellicole vuole essere forse una spinta a migliorare la situazione del paese in cui viveva, pur non essendo un cittadino.
Non ci è dato di sapere davvero quale fosse il suo punto di vista. E mentre partiva per l'Europa per una vacanza, fu emanato un decreto che gli impediva di rientrare, a meno che non avesse dimostrato di essere idoneo. Era il 1952.
Eppure, nel 1972, tornò ad Hollywood, per ricevere il premio Oscar alla carriera, e l'ovazione più lunga della storia dell'Academy Awards.

Charles Spencer Chaplin è stato molto più di tutto questo. Molto più di una serie di informazioni, pellicole e date. Inglese, americano o svizzero che lo si voglia chiamare. Che lo si ricordi come Charlot, Monsieur Verdoux, Calvero o Il Grande Dittatore.
Per me, rimarrà sempre in bianco e nero, nel mezzo della pista di un circo che non c'è più. Appallottola una stella di carta, si volta, la calcia via, e se ne va.

domenica 19 dicembre 2010

Come Eravamo

Bloccata non più solo nella neve, ma ora anche nel ghiaccio, chiusa in casa con una madre che vuole spostare tutti i mobili, per poi decidere che non le piace poi così tanto la loro nuova collocazione, che posso fare?
Scrivo.

The Way We Were
1973
Regia di Sidney Pollack. Sceneggiatura di Arthur Laurents. Con: Robert Redford, Barbra Streisand.
Voto: 7/10

Hubbel Gardiner (Redford) è un giovane americano dell'upper class conservatrice, protestante, disimpegnato, amante dello sport e del divertimento. Katie Morosky (Streisand), ebrea, appartiene alla Lega dei Giovani Comunisti, della quale è uno dei membri più attivi, sempre impegnata in campagne politiche e sempre pronta a far sentire la propria voce su tutto. Lo scenario sono gli Stati Uniti, tra la fine degli anni '30 e gli anni '50. Hubbel e Katie, contro ogni previsione, si innamorano. Ma i loro due mondi non si possono conciliare facilmente, e il clima di anticomunismo dell'America del tempo non può che complicare le cose, ed alcuni copromessi non possono essere accettati da entrambe le parti.

Il film, vincitore di due premi Oscar (miglior colonna sonora e miglior canzone), è considerato un classico del romanticismo made in USA, tanto classico da meritare di essere citato in una puntata di Sex And The City (Ex and the city, 02x18, 1999). Anzi, si potrebbe dire che Sex And The City in sé sia una citazione di Come Eravamo (anche se a livello puramente estetico).
Nonostante gli sforzi, le frasi strappalacrime e i petti palpitanti rubano la scena alla storia americana, rischiando di rendere gli spettatori cinici ancora più cinici. Ma questo non deve far sottovalutare eccessivamente il film, che comunque può riuscire a comunicare il suo messaggio, anche se forse solo ad un determinato tipo di pubblico, rendendosi quindi un po' limitato.
Barbra Streisand ha sicuramente la fisionomia perfetta per interpretare Katie, e complessivamente riesce bene nella parte. Avrebbe dovuto ricordarsene nel 1991, quando, da regista de Il Principe delle Maree, si è regalata il ruolo di Susan Lowenstein, con tanto di primo piano alle gambe. Barbra, non fa per te.

domenica 12 dicembre 2010

Come sposare un milionario

How to Marry a Millionaire
1953
Regia di Jean Negulesco. Soggetto di Zoe Akins, Dale Eunson, Katherine Albert. Sceneggiatura di Nunnallly Johnson. Con: Lauren Bacall, Marilyn Monroe, Betty Grable.
Voto: 7/10

Schatze Page (Bacall), Pola Devevoise (Monroe) e Marzo Dempsey (Grable, Loco Dempsey nella versione originale) sono tre affascinanti modelle con lo stesso sogno: sposare un milionario. A tale scopo affittano un lussuoso appartamento a New York, il cui proprietario è in fuga dal fisco. Ma Schatze è scettica e aggressiva a causa del suo primo matrimonio mal riuscito, Pola, nonostante sia quasi del tutto miope, si rifiuta di indossare gli occhiali in presenza di un uomo e Marzo si ritrova in una baracca in montagna. Adescare ricchi petrolieri non risulta facile come previsto.

Il film, tratto da The Greeks Had a Word for Them di Lowell Sherman, 1932, è il primo prodotto dalla Fox. Non ha certo segnato la storia della commedia americana, ma risulta ugualmente gradevole e divertente. Lauren Bacall (che in una scena dà del tardone al suo stesso marito, Humphrey Bogart), personaggio centrale del film, con le sue sopracciglia inarcate e spesso ritenute seducenti, è sicuramente la meno adatta alla commedia, e mantiene più che altro un'aria da snob, pienamente consapevole di reggersi su un bel paio di gambe. Molto più azzeccate per i propri ruoli sono invece la Monroe e la Gramble, che interpretano la parte delle belle bionde un po' svampite in modo ironico e senza troppe pretese.

domenica 5 dicembre 2010

You Will Meet a Tall Dark Stranger

In primo luogo prometto che dopo questo post la smetterò di ammorbare i miei lettori (se ce ne sono) con Woody Allen, almeno per un po'.
Ma mi è stata lanciata, per quanto in forma indiretta, una sfida, e non potevo fare a meno di coglierla. Capite? E' una questione di ego.
Quindi, a chi afferma che su Incontrerai l'Uomo dei Tuoi Sogni ci sia poco da dire, rispondo prontamente.
Per farlo, però, devo allontanarmi dalla recensione, per passare ad un altro genere, che chiamerò saggistica saccente.
La mia prima prima uscita di casa dopo l'estrazione dei denti del giudizio non poteva che essere alleniana.
Il film, uscito ieri, si presenta benissimo, perfettamente impacchettato negli abiti, tutti di buon gusto, dei personaggi-escludendo ovviamente l'amante di Anthony Hopkins, volutamente volgare. L'ambientazione londinese si lascia apprezzare pienamente, e al centro della storia non poteva che esserci una famiglia altoborghese. Disastrata, s'intende.
La madre tenta il suicidio dopo esser stata lasciata, dopo quarant'anni, dal marito, che prontamente si risposa con una giovane prostituta scialacquatrice e fedigrafa.
La figlia vive la sua crisi coniugale, mentre il genero, laureato in medicina ma deciso a non fare il medico, si strugge sul suo secondo romanzo, scrivendolo e riscrivendolo all'infinito, senza mai concludere nulla, sbirciando dalla finestra l'attraente vicina di casa vestita in rosso.
Insoddisfazione, tradimenti dietro ogni angolo.
Il quadro non è certo dei più nuovi per Woody. Eppure funziona ancora.
Al primo sguardo si riconosce Interiors, 1978, anche se stavolta la storia è raccontata in chiave comica. Ma c'è dell'altro: la prostituta, lì per lì, sembra proprio Linda de La Dea dell'Amore, 1995, anche se con un po' di anni in più. E Londra non può non richiamare Match Point, 2005.
Ma andando avanti ci si rende conto che non si tratta solo di questo: la madre, che in Interiors si fa schiacciare dal peso delle proprie sofferenze e non trova altra via d'uscita se non l'annegamento, con cui, in fin dei conti, "libera" anche tutti gli altri, in questo caso invece è l'unica a trovare la felicità; e la Linda di turno, invece di scoprirsi semplice e bisognosa d'amore, si rivela soltanto per quel che è. Cioè una gran puttana.
Ognuno cerca di fuggire la propria insoddisfazione, cercando di sostituire il proprio amore con un altro, magari per sentirsi ancora una volta giovani, chi flirtando con una sconosciuta, rubando il lavoro degli altri, ma tutti, alla fine, sono costretti a mettersi faccia a faccia con la loro realtà di persone non risolte. E Woody non ci vuol dire come andrà a finire per loro.
Per Helena, invece, unica a cui il cambiamento è stato imposto, unica costretta da scelte non sue ad affrontare il proprio dolore e trovare una via d'uscita, il lieto fine c'è. E c'è perché riesce a credere in qualcosa. Qualcosa che in realtà non esiste nemmeno, qualcosa che è solo fantasia, illusione, metafisica. Occulto. Eppure, è proprio ciò che le fa trovare una persona che voglia restare al suo fianco, e non la faccia sentire sola e sbagliata. E, cuiriosamente, è ciò che tutti gli altri chiamano ciarlataneria a farle trovare un affetto reale.
La domanda che rimane aperta, è dunque questa: esiste o no una speranza vera?

giovedì 2 dicembre 2010

In morte di Mario Monicelli e in occasione dei 75 di Woody

Mi sono chiesta se fosse una cosa da farsi, accostare la morte di Monicelli al compleanno di Woody Allen. Il "colgo due piccioni con una fava" suona male in certi casi. E se dovessi riportare gli eventi assieme perché ravvicinati, dovrei parlare anche dell'estrazione dei miei denti del giudizio (che, guarda caso, risale a lunedì, giorno della scomparsa di uno dei protagonisti di questo post).
So già che a Natale sprobabilmente starò scrivendo della morte di Charlie Chaplin, che se ne è andato il 25 dicembre del 1977, e del fatto che nel 2006 Pasqua fosse il 16 aprile, giorno del suo compleanno. Il che creerebbe un altro post in cui si legano morte e compleanno, e anche resurrezione, se si vuol essere pignoli.
Avrei potuto parlare di Mario Monicelli lunedì, o martedì al più tardi. Ma è anche vero che riuscire a scrivere in italiano dopo essersi fatti estrarre due denti, sotto antibiotici e antidolorifici, completamente rintronati e con una faccia che è stata paragonata a quella di Marlon Brando ne Il Padrino risulta quantomeno molto faticoso. Quindi stasera si è rivelato il primo momento realmente utile, e a spendere due parole su questo grande non posso rinunciare. Allo stesso modo non posso far finta che oggi non sia il giorno del settantacinquesimo compleanno di Woody Allen.
Perciò, dopo aver considerato le varie opzioni, ho scelto questa, sperando di non recare torto a nessuno, perché le intenzioni erano le migliori.
Vi offro dunque una recensione de L'Armata Brancaleone, seguita da quella de La Rosa Purpurea del Cairo. E spero in una migliore organizzazione per la prossima volta.

L'Armata Brancaleone
1966
Regia di Mario Monicelli. Soggetto e sceneggiatura di Agenore Incrocci, Furio Scarpelli e Mario Monicelli. Con: Vittorio Gassman, Gian Maria Volonté, Catherine Spaak, Folco Lulli, Enrico Maria Salerno, Carlo Pisacane, Ugo Fangareggi, Gianluigi Crescenzi, Pippo Starnazza, Luigi Sangiorgi, Maria Grazia Buccella, Tito Garcia, Joaquìn Dìaz.
Voto: 10/10

Siamo nell'Italia del XI secolo, e Brancaleone da Norcia (Gassman), unico rampollo di una famiglia decaduta, si reca, assieme al suo manipolo di miserabili e spiantati, verso il feudo di Aurocastro, che, secondo quanto riportato da una misteriosa pergamena (in realtà non destinata a lui), gli sarebbe stato affidato come vassallo. Lo aspettano l'incontro col bizantino Teofilatto dei Leonzi (Volonté), la peste, il monaco Zenone (Salerno), la bella Matelda (Spaak) e l'attacco dei Saraceni. Uscito vittorioso, assieme alla sua armata, da questa serie di curiose avventure, deciderà di partire con Zenone alla volta di Gerusalemme per liberare il Santo Sepolcro, seguito dai suoi compagni di ventura.

Il film, campione d'incassi e vincitore di tre Nastri d'Argento (costumi, musiche e fotografia), mette in primo piano il tema del riscatto dei perdenti, dei miserabili, che Monicelli aveva tanto cari e che riesce a far amare perdutamente dallo spettatore per la loro simpatia, i loro fallimenti, la loro voglia di non mollare mai, unita al singolare modo di parlare, tra l'italiano arcaico, il latino e il dialetto, con cui vien loro data voce.
Una successione di piccole avventure originalissima, che pure rimanda in quanto a struttura a poemi come L'Orlando Furioso di Lodovico Ariosto (anche se più storicamente attendibile) e ad altri capolavori di Monicelli, come I Soliti Ignoti o Amici Miei, con i quali condivide, tra gli altri, il tema dell'amicizia, che rende il film un perfetto esempio di opera corale.


La Rosa Purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo)
1985
Regia di Woody Allen. Soggetto e seneggiatura di Woody Allen. Con: Mia Farrow, Jeff Daniels, Danny Aiello.
Voto: 9/10

Siamo nel New Jersery, nel periodo della grande depressione. Cecilia (Farrow) è una cameriera sbadata, sposata con Monk (Aiello), disoccupato, violento, che perde al gioco quel poco che lei riesce a guadagnare. La sola sua sola consolazione è andare al cinema, unico luogo in cui può dimenticarsi dei problemi della vita di tutti i giorni e illudersi che ve ne possa essere una migliore. Dopo essere stata licenziata, si rifugia nella sala buia del cinematografo e guarda più e più volte La Rosa Purpurea del Cairo, fino a che, alla quinta volta, uno dei personaggi, l'esploratore Tom Baxeter "dei Baxter di Chicago" (Daniels), avendola notata, non esce dallo schermo, desideroso di vivere una reale storia d'amore con lei, finché l'attore che lo interpreta, Gill Shepherd, non lo viene a cercare, preoccupato per la sua carriera appena sbocciata. Finisce però anche lui per corteggiare Cecilia, offrendole di portarla con sé ad Hollywood. Lei accetta, facendo così tornare Tom nella pellicola dai suoi sconcertati compagni. Quando però si reca all'appuntamento con Gill per partire assieme a lui, lo scopre già sull'aereo, e non le resta che tornare a vivere la sua vita come prima.

La speranza illusa e disillusa in una vita migliore, che sia essa reale o immaginaria, è uno dei temi predominanti del film. Cecilia, trovatasi di fronte alla possibilità di realizzare i suoi sogni proprio come nei film, si sente confusa, e decide allora di seguire Gill, non perfetto, ma reale, illudendosi però di qualcosa che esiste solo sugli schermi.
Il film offre anche numerose citazioni di quel cinema in cui il sonoro era appena stato inventato, prendendolo anche un po' in giro con amore e nostalgia.


NOTA: scrivendo scrivendo, si è fatta l'una meno un quarto, quindi non sono riuscita a cogliere del tutto nessuna delle due date significative su cui questo post si basava. Si vede che non era destino.

giovedì 25 novembre 2010

Accordi e Disaccordi (Sweet and Lowdown)

Prima di partire con la recensione vera e propria, si lasci sfogare il mio spirito puntiglioso.
Sono riuscita a guardare il film nonostante Sean Penn, per il quale nutro un'antipatia viscerale, come alcuni già sapranno. Antipatia che mi impedisce di guardare Milk, che ho iniziato varie volte, e che interrompo puntualmente dopo mezz'ora, dichiarando che le uniche alternative erano spegnere il televisore o defenestrarlo. Per fortuna si manifesta in me il gene della pazienza quando si tratta di Woody Allen (con la sola eccezione, ad oggi, di Sogni e Delitti e Vicky Cristina Barcelona).
Di solito non si parla di antipatie nelle recensioni, ma la mia natura di personaggio fastidioso mi impone di puntare il dito su tutto ciò che non mi piace, ed è per questo che mi ritaglio uno spazio prima di mettermi a scrivere qualcosa che possa essere ritenuto anche solo vagamente attendibile.
Mi viene da chiedermi, a questo punto, quanto le simpatie e le antipatie condizionino il lavoro svolto dalla critica. Per quel che mi riguarda, so solo che non sono ancora riuscita a perdonare a Sean Connery di essere stato James Bond, o Ridley Scott per averci regalato capolavori come Thelma & Louise e Blade Runner e poi aver girato Il Gladiatore. Questo mi rende eccessivamente pignola e rompiscatole o solo ferma nelle mie convinzioni cinematografiche? So quale risposta darebbe il mio ego.
Detto ciò, con la quasi totale certezza che tornerò presto sull'argomento, passiamo a Woody.

ATTENZIONE: POTREBBE CONTENERE SPOILER

Accordi e Disaccordi (Sweet and Lowdown)
1999
Regia di Woody Allen. Soggetto e sceneggiatura di Woody Allen. Con: Sean Penn, Samantha Morton, Uma Thurman, Anthony LaPaglia, James Urbaniak, Brian Markinson, Woody Allen, Ben Duncan.
Voto: 8/10

Sono gli anni '30, ed Emmet Ray (Penn) è il secondo chitarrista jazz più bravo al mondo. Il primato è detenuto da Django Reinhardt, per il quale Ray ha una venerazione tale da farlo svenire nelle rarissime e fortunate occasioni in cui lo incontra. Emmet è talentuoso, ma non ricco, passa le sue giornate andando a guardare i treni, sparando ai topi nelle discariche, ubriacandosi e sperperando il denaro che non possiede, atteggiandosi quasi come un James Bond in versione 1930, ma senza un soldo in tasca. Passa dalla relazione con la muta e dolce Hattie (Morton), al matrimonio con la più sofisticata Blanche (Thurman), ma la sua incapacità di legarsi e di esprimere i propri sentimenti lo fa infine rimanere solo, faccia a faccia con le note discordanti della sua vita. E' allora, prima di sparire, che crea la sua musica più bella.

Il film, intervallato da interviste ma non esattamente girato come un documentario, ricorda altre pellicole di Allen, come Prendi i soldi e scappa, Radio Days, e, volendo, Zelig. Le interviste, in questo caso, sostituiscono il classico monologo che in genere il regista usa come base per i suoi lavori.
Ray è raccontato per lo più per come viene visto dall'esterno, in quanto i suoi sentimenti sono celati in lui dall'incapacità di aprirsi veramente agli altri, il che pregiudica anche la sua musica, che non riesce ad essere completa come quella di Django Reinhardt, il quale, al contrario, non ha paura di commuoversi e commuovere. Nonostante questo non si dà mai un giudizio negativo di Emmet Ray, ma si cerca di far sbirciare da dietro la tenda ciò che il personaggio non vuole rivelarci.
Samantha Morton, candidata all'Oscar per il ruolo di Hattie, ricorda Giulietta Masina in La Strada di Fellini, e in effetti Penn con lei si comporta quasi come Zampanò.
Uma Thurman, qui in veste di bella bionda che fuma dal bocchino, offre il solito repertorio di sguardi ammalianti, identica a se stessa in Pulp Ficton nel '94 (Mia Wallace, mora) e in Batman & Robin nel '97 (Poison Ivy, rossa). Più che il ruolo, cambia il colore dei capelli.

giovedì 18 novembre 2010

Buffy, l'Ammazzavampiri

Buffy, The Vampire Slayer
1992.
Regia di Fran Rubel Kuzui. Sceneggiatura di Joss Whedon. Con: Kristy Swanson, Donald Sutherland, Paul Reubens, Rutger Hauer, Luke Perry, Hylary Swank, David Arquette, Thomas Jane.
Voto: 4/10

Buffy Summers (Swanson), ragazza pon pon del liceo Hemery, California, bionda, ricca e modaiola, scopre, grazie alla visita del signor Merrik (Sutherland), di essere la prescelta per cacciare i vampiri. Merrik infatti rinasce da secoli col compito di addestrare ragazze a questo scopo.
Intanto Zeph (Jane), tirapiedi del vampiro Lothos (Hauer), sta trasformando in vampiri i cittadini per creare una nuova "famiglia" al suo padrone, in attesta che quest'utlimo recuperi del tutto le forze.
Buffy incontra Pike (Perry), che scopre la sua vera identità e la aiuterà nella sua battaglia contro Lothos.

Nonostante il film non abbia avuto alcun successo, ne è stata tratta l'omonima serie televisiva, anch'essa di Joss Whedon. Anche se viene da chiedersi perché. E viene anche da chiedersi come sia stato possibile far recitare Donald Sutherland e Rutger Hauer così male. Luke Perry, famoso per aver impersonato Dylan in Beverly Hills 90210, non si discosta troppo dal personaggio, aggiungendo un tocco da sfigato in più (accentuato nella versione italiana dalla scelta del doppiatore, Luca Sandri, alias Kurochan).
Nonostante la pessima trama, la pessima recitazione, il disperato tentativo di infilare battute divertenti e i vampiri volanti, forse il film merita comunque di essere visto. Il perché alberga in un film di Mel Brooks. Sta allo spettatore scoprirlo.

sabato 13 novembre 2010

A Room With a View

C'è un certo numero di persone che ogni mattina va all'edicola. Mio padre è uno di loro.
Alcuni si limitano a comprare i biglietti dell'autobus.
Altri, invece, giornali e riviste. Mio padre è uno di quelli.
Alcuni spendono solo il costo del giornale, senza dare attenzione agli allegati.
Altri li acquistano una volta ogni tanto.
Altri ancora, tutte le volte. Mio padre, per un lungo periodo che potrebbe andare dalla prima diffusione del vhs all'avvento dei dvd, pare essere stato uno di questi.
Da che mi ricordo, siamo sempre stati estremamente ben forniti delle videocassette che davano con Panorama, la Repubblica, l'Unità, il Corriere della Sera. Videocassette ovunque. Alcune mai nemmeno tolte dalla plastica. Librerie piene di videocassette. Quando le mie amichette venivano a dormire, il sabato, chiedevamo a mio padre di sceglierci qualche film. Di solito ne facevamo una pila altissima, al bordo del letto. E alla fine crollavamo a metà del secondo.
Un cinefilo sarebbe impazzito là in mezzo. Almeno, io ci impazzivo.

Poi sono arrivati i dvd. E poi Sky.
Di film non ne compriamo più, stanno lì solo ad accumulare polvere e occupare spazio.
Così, alla fine, la decisione dei miei è stata quella di sfrattarli.
Io, che non sono mai stata una molto per il feng shui, ho finito con l'adottare l'intera nidiata di videocassette orfane, nella mia stanza da studentessa fuori sede, che ora sembra più un BlockBuster, o la stanza del tipetto fissato con gli alieni di Men In Black II.

Questa è una svolta che offre grandi possibilità. Ci siamo io e più di un centinaio di videocassette. E il mio spirito pignolo.
Quindi, ecco l'idea: un film, una recensione. Almeno uno a settimana. Non vincerò nessun premio letterario di certo, non manderò al rogo pubblico nessun film, non stroncherò nessuna carriera, né ne lancerò nessuna. Ma pare faccia bene darsi degli impegni di questo genere. Ci hanno fatto pure un film, Julie & Julia, con Meryl Streep. Anche se non era un gran che.

Ora devo solo trovare un televisore e un videoregistratore. Finirò come in uno dei miei film preferiti, a gridare da dietro la porta di un bagno di un bowling: "Se avessi voluto un uomo nella mia vita non mi sarei comprata un VHS!".
Nel mentre, spero che nessuno si offenda se inizio con i film salvati nel mio hard disk, su molti dei quali ho già avuto occasione di ammorbare il prossimo.
E spero di non fare errori di grammatica.