mercoledì 26 gennaio 2011

Chiude il Variety

Sì, sono in ritardo.

Due esami in due giorni, internet mi sta piantando in asso (grazie coinquilini, grazie tante…) e il mio hard disk ha deciso di morire senza alcuna ragione apparente, proprio ora che ero riuscita a scaricare le ultime puntate di True Blood, i sei film di Leuprechaun, i tre Poltergeist e i quattro Tremors. Ed essere privati dei propri film spazzatura quando già internet dà problemi e c’è un esame di sociologia da preparare è decisamente troppo per me.
Per fortuna il videoregistratore funziona ancora. Le videocassette un po’ meno, vista la loro età, ma per fortuna non soffro il mal di mare.
Avevo cominciato a scrivere Pazzi in Alabama, stavo riflettendo si Ghostbusters, Romero e Human Traffic, ma c'è qualcosa di più importante di cui vorrei parlare. Qualcosa che mi è finito sotto gli occhi, e che non potevo far finta di non vedere. E per quanto questo blog parli di cinema, non del cinema inteso come struttura fisica, mi sembrava doveroso rendere omaggio ad un vecchio amico. E sarò anche fuori tema, ma ero comunque fuori tempo.

Domenica 30 gennaio 2010 sarà l'ultimo giorno del Variety.
So di averne parlato con poco riguardo ultimamente. Ormai, da brava saccente cinefila snob, non lo frequentavo più da tempo, preferendogli circuiti alternativi, come il Flora, o il Fiorella. Ma so benissimo di essere passata da lì. Quasi ogni settimana, per parecchi anni, anche.
Non mi piace pensare a me stessa come a una che frequentava il cinema commerciale, oggi. Mi piace fare l'acculturata, la ganza, quella che ne sa, è di palato raffinato e si schifa quando un film è campione d'incassi al botteghino e vince troppi premi Oscar. Ma fa parte dell'essere snob.
Eppure il Variety mi piaceva. Mi ricordo quando cambiarono l'ingresso, "girandolo" dall'altra parte, e improvvisamente il tutto cambiò aspetto, diventando grande, attraente, accattivante. Più che un nuovo ingresso, era un'enorme vetrina. E penso fu più o meno allora che la nostra luna di miele finì.
Non mi piaceva la nuova faccia del Variety, che gridava "multisala" in maniera così sfacciata. Non mi piacevano più le locandine appese fuori, non mi piaceva più la gente dentro (eccetto quando, a 13 anni, mi resi conto di che bel ragazzo fosse quello delle patatine). Ma probabilmente, più che il Variety, ero cambiata io.
Ho visto tutti e tre gli ultimi film di Star Wars, là.
Al primo dovetti uscire a fare pipì nella scena saliente (come a Tarzan), il secondo fu un buco nero, e al terzo ero piegata in due dal ridere. E uscii tutte e tre le volte dicendo che i vecchi film erano molto meglio, ma che Yoda col laser era fighissimo.
Riuscirono persino a convincermi a vedere un film di Harry Potter, al Variety. Entrammo che era già cominciato da mezz'ora, non c'erano posti a sedere, e, data l'età media del pubblico in sala, c'era pure un fastidioso mormorio di sottofondo, che esplodeva in femminei squittii acuti ogni volta che qualche fico faceva qualcosa da fico.
Ma il periodo migliore fu (e qui purtroppo sono costretta ad ammetterlo) dopo l'uscita del primo Signore degli Anelli, che però confesso di aver visto al Colonna. Partendo dal presupposto che andavo alle scuole medie, indossavo maglioni enormi e pantaloni col cavallo sotto le ginocchia, ero pallida, non uscivo mai di casa, avevo un solo sopracciglio, la frangia lunga fino a metà naso e le occhiaie fino ai lati della bocca, il fatto peggiore rimane che mi ero innamorata di Orlando Bloom. E ora tutto il web puà saperlo. E' la vita.
Ma se ho accettato di confessare una cosa del genere è solo perché può aiutare a far capire quanto mi sentissi felice in un cinema (che al tempo era il Variety, appunto). Mi sentivo pure stranamente interessante, mentre, in una sala piena di dodicenni come me, con il jeans attillato e tre dita di trucco sulla faccia, mangiavo i miei pop corn facendo tra me e me commenti tecnici sul film, che sicuramente Orlando avrebbe apprezzato molto di più di tutto quel civettare preadolescenziale. E anche se adesso so che probabilmente non sarebbe stato così, all'epoca ci credevo fermamente. E questo fa parte, probabilmente, dell'essere sfigati e con un frangione-copri-sopracciglio.
Anche se le cose adesso sono cambiate, credo che la sensazione che è nata in quegli anni di "bruttezza eternamente rinnovata" (citando Persepolis) sia quella che poi mi sono portata dietro in tutti i cinema che hanno segnato la mia storia di saccente snob. Ho cambiato modo di vestire, di apparire, di parlare, ho cambiato gusti, ho valutato cose nuove e rivalutato cose vecchie, ma sono convinta che sia lì che tutto è cominciato. E sapere che adesso sta per finire, finire veramente, fa male. E' stato quello il primo luogo pubblico in cui un film mi ha fatto venire le lacrime agli occhi. E adesso piangere per la struttura anziché per il film è strano e sconcertante. Non potendo dargli un addio "reale", gliene dò uno qui. Per quello che può valere.
Rimpiango solo che l'ultimo film visto al Variety sia 2012.

sabato 8 gennaio 2011

American Life

In ritardo per il mio proposito "almeno una a settimana", mi giustifico dicendo che gli esami, il capodanno e il raffreddore tolgono una buona quantità di tempo, ovvero quello che di solito utilizzo per guardare i film e parlarne da sola per ore e ore (e ore, e ore, e ore, e ore...) creando la mia inattaccabile opinione personale, che, come alcuni sanno, è una vera e propria tagliola per i malcapitati che cercano di contraddirmi.
In attesa dell'illuminante opinione di un esperto psicanalista freudiano sull'argomento, mi rimetto al lavoro.

Away We Go
2009
Regia di Sam Mendes. Sceneggiatura di Dave Eggers e Vendela Vida. Con: Maya Rudolph, John Krasinski, Jeff Daniels, Catherine O'Hara, Allison Janney, Jim Gaffigan, Carmen Ejogo, Maggie Gyllenhaal, Josh Hamilton, Chris Messina, Melanie Lynskey, Paul Schneider.
Voto: 7,5/10

Burt e Verona Krasinski e Rudolph), trentenni, innamorati, conviventi ma non sposati, attendono la nascita della loro prima figlia. Ma, quando Verona è al sesto mese di gravidanza, scoporono che i genitori di Burt (Daniels e O'Hara), invece che prepararsi al loro compito di nonni, hanno deciso di partire per il Belgio il mese prima della nascita della piccola, per restarvi due anni. I futuri mamma e papà (che si erano trasferiti in Colorado per star vicino ai genitori di Burt) decidono allora di fare a loro volta le valige e andare alla ricerca di una nuova casa, incontrando vecchi amici, colleghi e parenti.

Il film è probabilmente l'esatto opposto di ciò che classicamente ci si aspetta da un prodotto made in USA: Hollywood ci dà pellicole dal ritmo incalzante, e questo invece è lento e poco ritmato; ci mostra la famiglia come nucleo unito, e qui invece la famiglia forse nemmeno esiste; ci racconta un paese che è sempre inscrivibile a New York o alla California, e in questo caso invece si vede un po' di tutto, tranne che di New York e California. Ma infatti questa non è una pellicola timbrata Hollywood.
Mendes, passato dai cinque premi Oscar di American Beauty ad un vero e proprio film indipendente, ci mostra il volto dell'America (e dell'Occidente) attraverso la famiglia-o la non famiglia. Ci racconta di come ognuno dei personaggi incontrati da Burt e Verona (e anche Burt e Verona stessi) cerchi di costruirsi le proprie certezze, vivendo in un nucleo più che in una comunità, seguendo i propri schemi e le proprie regole.
Il risultato è, nel complesso, gradevole, ma non sempre fluido. Mendes dipinge un quadro dove molti di noi potrebbero riconoscersi, anche se forse non tutti ne avranno voglia.